Primo: in Jap NON parlano inglese o al max spiccicano qualche parola spare buttata a caso e pronunciata da cani (bisi/gud/monchi/cis/lachi/littel/solly). Soluzione: prepararsi a gesticolare (vedasi Dany che ha mimato “Buddha Gigante” a Kamakura permettendoci di ottenere facili indicazioni per raggiungerlo).
Secondo: il mare a Tokyo, d’inverno, NON mitiga il clima ma proprio per niente. Soluzione: portarsi dietro mezzo armadio di maglioni strapesanti.
Terzo: le balle che le carte di credito, nella megalopoli simbolo della tecnologia piú lussurreggiante e sfrenata sogno di ogni nerd, vengono accettate ovunque. Soluzione: portarsi tanti, ma tanti contanti.
Quarto: riuscire a prendere la metro giusta nelle stazioni in cui qualsiasi fott&*^#* indicazione é in kanji, é un fott&*^#* terno al lotto. Soluzione: pregare il Buddha Gigante.
Detto questo, il mio secondo viaggio in Jap é stato divertente al massimo come il precedente, perché, paesaggi incredibili a parte, gli autoctoni sono TROPPO fuori dal nostro mondo per non essere continuamente motivo di sfolgorante sbalordimento.
Parte il treno alla stazione. Il bigliettaio si inchina profondamente ringraziando ad alta voce e non rialza la testa finché tutto il convoglio non é defluito.
Sul treno passa il tipo/la tipa che spinge il carrellino di cibi e bavande. Al termine di ogni vagone, frena il carrellino e si inchina profondamente verso i passeggeri (ringraziando, ovvio, anche se non ha venduto nulla) prima di proseguire.
La disoccupazione in Jap non esiste, evidentemente. All’arrivo in stazione dello Shinkansen, l’apposito addetto ruota TUTTI i sedili del treno nella direzione di marcia successiva. Cioé c’é un tizio pagato appositamente per girare i sedili del treno. Se nasco un’altra volta voglio assolutamente fare questo mestiere.
Per mimare “no”, fanno il gesto che usiamo noi per dire “ma sei scemo?”, sventagliando una mano davanti alla faccia (Metá – che notoriamente é un suscettibile permaloso – si é mortalmente offeso la prima volta che un controllore gli ha risposto cosí alla domanda “Do you speak english?”), oppure ancora meglio, fanno una “X” incrociando le braccia (in atteggiamento “Goku Super Saiyan” o “Fulmine di Pegasus”).
L’armadio dei Jap é sapientemente fornito di vestiti assurdi; le Jap (temperature esterne variabili dai -11˚ ai + 3˚ C) indossano striminze minigonne – la maggioranza – spesso senza collant ma con scaldamuscoli modello “donna delle nevi”, oppure pantaloni – la minoranza – ma con paperine senza calze (abbigliamento mio: calzamaglia “Capo Nord”, pantaloni di velluto, doppia calza da ghiacciaio, scarponcini da trekking, canotta, maglia maniche lunghe, coprispalle in lana, manicotti di lana, altro maglione di lana, piumino, scialle, sciarpa, berretto, triplo guanto e a Nikko GELAVO); i Jap tristi completi “impiegato”, blu o neri, con cravatte che gridano vendetta al cospetto del Buddha Gigante.
Mitici i pendagli da cellulare che spesso pesano piú del cellulare. Mitiche la gambe stortissime e i denti miscelati a caso. Mitici i nerd galvanizzati nelle mangherie pornazze ad Akiba. Mitico il silenzio che regna su tutto nonostante l’oggettivo casino. Mitici i tempietti che sorgono come funghi fra un grattacielo e l’altro. Mitiche le donne in kimono tradizionale e cellulare ipertechno alla mano. Mitiche la sale Pachinko dal casino surreale. Mitico il té verde al sapore di prato e/o di tonno in scatola.
E spezziamo una lancia, i Jap sono fuori dal mondo anche per quanto riguarda l’inestimabile gentilezza; all’arrivo, un tizio qualunque che passava di lí ci ha visti spersi con la mappa dell’hotel in mano e spontaneamente si é offerto di aiutarci, accompagnandoci personalmente fin sulla porta, senza per questo rubarci né i bagagli né i portafogli.
Il resoconto completo su: http://turistipercaso.it/tokyo/61119/dieci-giorni-fra-tokyo-e-dintorni.html
Foto su: http://good-times.webshots.com/album/556425231pUoYpb
Falquo
11 anni fa
Voglio andarciiiiiiiiiiiii!
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