venerdì 28 gennaio 2011

La filiale - Sergej Dovlatov

Ecco un bell'esempio di romanzo che inizia bene, facendo spesso anche sorridere, ma che poi vorresti usare al posto della carta igienica per il nervoso.
Da quando entra in scena la stronza - non la si può definire altrimenti - Tasja, il primo e indimenticato amore del protagonista, le pagine diventano un susseguirsi di irritanti motivi per ucciderla, altro che pendere ancora bavoso dalle sue labbra dopo vent'anni che costei ti ha mollato da perfetto perdente. La tipica donna capace solo di capricci egoistici che, per qualche misterioso motivo, la rendono ancora più desiderabile anzichè far venir voglia di mandarla a stendere una volta per tutte.
Costei si ripresenta al'improvviso, sfacciatamente incinta di un altro ma innamorata persa di un terzo e prima cosa chiede dei soldi. Ora io dico: ma non bisognerebbe sbatterle la porta in faccia? No, il protagonista comincia a flash-backare su quanto fosse stato (in)felice con sta stronza in gioventù, come per colpa sua avesse dovuto mollare l'università per l'esercito, come lei gli avesse reso la vita impossibile...e l'aiuta. Mah.
Peccato. La prima parte del libro delineava con un'ironia non comune le litigiose faziosità degli ambienti letterari nei convegni filo-sovietici che fioccavano negli Stati Uniti dei primi anni '80 e riflettono la profonda cultura sull'argomento dell'autore, giornalista sregolato che veniva periodicamente licenziato dalle redazioni in cui lavorava (credo sia un pò un alter-ego del suo protagonista)...la seconda parte è invece a parer mio, eccessivamente irritante per melensaggini e comportamenti umanamente idioti.
Finisce polverosamente in seconda fila su uno scaffale. Tzè.

giovedì 27 gennaio 2011

27 Gennaio


Se questo è un uomo...

domenica 23 gennaio 2011

Skyline

Non saprei davvero spiegare il motivo principale per cui si esce dal cinema insoddisfatti e anche un pò inkazzosi. Sarà il finale idiota? Saranno gli attori INUTILI (il più famoso di loro ha "recitato" in Scrubs, l'insulso protagonista è diventato famoso per una sua scena di nudo in erezione...no comment)? Sarà lo skifo-trash dei cervelli umani ciucciati? Sarà il fatidico domandone: ma se per vivere gli alieni ciucciano CERVELLI...perché hanno scelto proprio la Terra? Comunque: non resistendo agli effettazzi sbirciati nel trailer, trascino Metà a vedere codesto filmaccio sperando nel piccolo capolavoro di nicchia alla Moon (vuoi mai...).
Diciamo che ne ho apprezzato essenzialmente tre cose: gli alieni non hanno bachi di sorta, per la prima volta nella storia della cinematografia americazza moderna ci fanno davvero il culo a stelle e strisce e non ci sono dannatissimi superuomini che sanno cosa fare andando a colpo sicuro e salvando tutto il genere umano usando un pacchetto di stuzzicadenti alla McGyver. Anzi. Gli insignificanti protagonisti sono imbranati e impanicati e non sanno (giustamente, direi) che pesci pigliare per tutto il film.
Pfui a Independence Day dove il Goldblum fa prendere "il raffreddore" (sigh!) al computer alieno, doppio pfui a Signs dove gli alieni sono allergici all'acqua (maronna, ma chi è il genio alla sceneggiatura? E tu vieni a conquistare un pianeta fatto al 70% dell'elemento che ti ammazza?) e a tutti quei film dove l'alieno è talmente pirla da non riuscire neanche a salire una scala (tipo i cattivi del primo Tomb Raider, per dire, a cui si sparava tranquillamente dall'alto di qualcosa), in Skyline i mostricciattoli volano, scalano, schiacciano, sparano, risucchiano e vanno dalle cantine ai superattici senza che nulla possa stroncarli (atomiche incluse) perchè riescono a ricostruirsi anche una volta esplosi. E infatti stavolta perdiamo. No way. Ci acchiappano tutti. Ci distruggono. Terra decimata. E bon. Oh là, era ora. Ecco, a questo punto io mi sarei fermata. E invece no, i fratelli Qualcosa alla regia decidono di fare la solita americazzata e tirano fuori un finale possibilista abbastanza ridicolo e anche un pò skifoso. Mah, vabbè, non è stato certo questo a rovinare un film che già di per sè non era un capolavoro. Unica scena ganza, il Ferrarino sgnaccato dal piedone alieno che fa fuori due imbecilli che tentano di sgommare via.

giovedì 20 gennaio 2011

Memorie di una Geisha

Il libro giusto da leggere in Jap per passare il resto del viaggio a odiare il genere maschile dagli occhi a mandorla saettando in giro sguardi d’astio puro. E pensare che anche nel Jap di oggi si organizzano corsi da geisha e che – mai stupirsi di nulla – sono pure spontaneamente frequentati, senza che siano le famiglie a venderti al pappone di turno. Mah. Per la gioia del movimento femminista, é comunque arrivata giusto ieri la notizia che in Jap le donne hanno iniziato a guadagnare piú degli uomini (http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_19/geisha-a-chi-le-donne-in-giappone-ora-guadagnano-piu-degli-uomini-federico-fubini_37c25038-23b4-11e0-a3c4-00144f02aabc.shtml); ci confermava inoltre un ragazzo italiano conosciuto in aereo che da 8 anni vive in Jap, che le donne solo apparentemente, nella societá odierna, sono ancora succubi del capo famiglia ma anzi, tengono proprio loro – e ben stretti – i cordoni della borsa. Sto ragazzo giurava che sono sempre di piú, infatti, i suddetti capi famiglia che implorano le ditte di versare la quattordicesima su un conto sconosciuto alle mogli in modo tale da non dover sborsare mensilmente la tangente alla signora. La rivincita del burka. O delle geishe.
La protagonista del romanzo, Sayuri, bambina bellissima e dotata di rari e inquietanti occhi grigi, viene venduta dal padre, vedovo e povero, insieme alla sorella maggiore che peró, essendo meno interessante, finisce in uno squallido bordello di Kyoto anziché essere candidata a diventare una potenziale geisha. Vediamo un pó le differenze fra “mignotta” e “geisha” a quanto mi é dato di capire leggendo il romanzo. “Geisha” significa “artista”, quindi la creatura deve innanzitutto eccellere, a suon di ritmi massacranti e in condizioni a dir poco disagevoli, nelle sublimi arti che faranno di lei la portavoce della raffinatezza e dell’eleganza estrema: musica, ballo, canto, ventaglini, ikebana, cerimonia de té, eccetera. Poi deve subirsi pettinature da urlo (in tutti i sensi perché i capelli vengono tirati in modo improponibile), vestizioni con strati su strati di kimono pesantissimi in bilico sui tipici sandaletti di legno, trucchi e vessazioni varie (incluso il fatto di dover dormire su un ciocco di legno che sostiene solo il collo in modo da non rovinare l’acconciatura), per poi partecipare a un tot di feste a sera in cui intrattiene i gentili ospiti con aneddoti brillanti o deliziose canzoncine, servendo il té o il saké sempre con infinita grazia e mani di fata. Quando poi sará finalmente ora di darla via per la prima volta – a un ricco, nella fattispecie – la geisha tua protettrice (detta “sorella maggiore”) e la tua padrona (che ti fa studiare anticipando soldi che poi dovrai restituirle negli anni a venire con il tuo “lavoro” da geisha) cominceranno una simpatica asta sulla tua pellaccia per chi offre di piú, e pazienza se, solita sfiga, il ricco fortunato é un bavoso vecchiardo. Da codesto mizuage in poi, o ti trovi un protettore che ti piglia come amante fissa e ti fa un sacco di regali permettendoti financo di “metterti in proprio”, oppure passerai la vita da una festa a un altra, sempre strimpellando chitarrine e versando saké ai ricchi ubriaconi. La mignotta invece fa invece solo una cosa ma per lo meno non si cuzza tutto la parte di apprendistato della geisha. Diciamo che entrambe le “professioni” vanno un pó a parare nello stesso posto.
Il romanzo comunque é un bellissimo affresco storico (l'autore ha raccolto testimonianze da una vera geisha doc!) e riesce a coinvolgere sia per la ricchezza e il dettaglio delle descrizioni, sia per gli straordinari personaggi che fa muovere sui sandaletti per l’acciottolato di Gion. Ora ho voglia di rivedere il film, che ricordo altrettanto bello.

martedì 18 gennaio 2011

Hereafter

Skatta in sala un brivido d’italico orgoglio quando Matt Damon inizia a frequentare un corso di cucina nostrana col cuoco Carlo e skatta palpabile la passione “Piemunt Liber” quando suddetto Carlo fa bere a tutti i presenti un bicchiere di Barbaresco docg, lodando le cuneesi vigne da oltreoceano. Sdegno e snobistica alterigia quando invece Bryce Dallas Howard – di nuovo cieca – non distingue un cucchiaio di nocciole tostate dalla passata di pomodoro, tzé, americani hamburgerari, ma cosa vuoi che ne sappiano di buona cucina.
Il film comunque parla di Aldilá, non di cibo, scusate, stavo divagando.
Dopo aver passato un terzo del film con la pelle d’oca (perché non so cosa farci ma a me i fantasmi fanno ancora paura), un terzo a piangere (perché il gemello rimasto ha un faccino Oliver Twist da strappare il cuore) e l’ultimo terzo con le palle girate perché l’idea di fare tutta la parte ambientata a Parigi in francese con i sottotitoli trovo sia davvero poco funzionale ai fini della scorrevolezza del film, tirando le somme direi che Clint ha creato – come sempre – un prodotto ben recitato, toccante, commovente e per nulla scontato (eccezion fatta, direi, per il personaggio del fratello di Matt che vuole sfruttare a fini monetari il "dono"), ma forse un pó lento in alcuni tratti e con alcune soluzioni (vedi appunto sti noiosissimi ed eterni sottotitoli) che ammazzano l’attenzione e fanno rimpiangere Gran Torino.
Ben diretta la scena iniziale dello tsunami, che rende perfettamente l’idea di panico e di inevitabilitá, la scena del berretto volante a Charing Cross (ri-pelle d’oca), i flash ripetuti degli spiriti/ombre e la telefonata dell’editore americano (“Il suo libro ci piace, lo vorremmo pubblicare”, ma questa é una cosa mia, nel film non é un cosí grande capolavoro!). Odio viscerale per il solito Macho Shithead che antepone la gnocca rampante alla carampana calante.
Il messaggio finale, decisamente a libera interpretazione, secondo me é comunque ottimistico: finalmente un pó di futuro prossimo QUI e non il solito presente spiritico AL DI LÁ del reale e tangibile.

martedì 11 gennaio 2011

Japs!

Primo: in Jap NON parlano inglese o al max spiccicano qualche parola spare buttata a caso e pronunciata da cani (bisi/gud/monchi/cis/lachi/littel/solly). Soluzione: prepararsi a gesticolare (vedasi Dany che ha mimato “Buddha Gigante” a Kamakura permettendoci di ottenere facili indicazioni per raggiungerlo).
Secondo: il mare a Tokyo, d’inverno, NON mitiga il clima ma proprio per niente. Soluzione: portarsi dietro mezzo armadio di maglioni strapesanti.
Terzo: le balle che le carte di credito, nella megalopoli simbolo della tecnologia piú lussurreggiante e sfrenata sogno di ogni nerd, vengono accettate ovunque. Soluzione: portarsi tanti, ma tanti contanti.
Quarto: riuscire a prendere la metro giusta nelle stazioni in cui qualsiasi fott&*^#* indicazione é in kanji, é un fott&*^#* terno al lotto. Soluzione: pregare il Buddha Gigante.

Detto questo, il mio secondo viaggio in Jap é stato divertente al massimo come il precedente, perché, paesaggi incredibili a parte, gli autoctoni sono TROPPO fuori dal nostro mondo per non essere continuamente motivo di sfolgorante sbalordimento.
Parte il treno alla stazione. Il bigliettaio si inchina profondamente ringraziando ad alta voce e non rialza la testa finché tutto il convoglio non é defluito.
Sul treno passa il tipo/la tipa che spinge il carrellino di cibi e bavande. Al termine di ogni vagone, frena il carrellino e si inchina profondamente verso i passeggeri (ringraziando, ovvio, anche se non ha venduto nulla) prima di proseguire.
La disoccupazione in Jap non esiste, evidentemente. All’arrivo in stazione dello Shinkansen, l’apposito addetto ruota TUTTI i sedili del treno nella direzione di marcia successiva. Cioé c’é un tizio pagato appositamente per girare i sedili del treno. Se nasco un’altra volta voglio assolutamente fare questo mestiere.
Per mimare “no”, fanno il gesto che usiamo noi per dire “ma sei scemo?”, sventagliando una mano davanti alla faccia (Metá – che notoriamente é un suscettibile permaloso – si é mortalmente offeso la prima volta che un controllore gli ha risposto cosí alla domanda “Do you speak english?”), oppure ancora meglio, fanno una “X” incrociando le braccia (in atteggiamento “Goku Super Saiyan” o “Fulmine di Pegasus”).
L’armadio dei Jap é sapientemente fornito di vestiti assurdi; le Jap (temperature esterne variabili dai -11˚ ai + 3˚ C) indossano striminze minigonne – la maggioranza – spesso senza collant ma con scaldamuscoli modello “donna delle nevi”, oppure pantaloni – la minoranza – ma con paperine senza calze (abbigliamento mio: calzamaglia “Capo Nord”, pantaloni di velluto, doppia calza da ghiacciaio, scarponcini da trekking, canotta, maglia maniche lunghe, coprispalle in lana, manicotti di lana, altro maglione di lana, piumino, scialle, sciarpa, berretto, triplo guanto e a Nikko GELAVO); i Jap tristi completi “impiegato”, blu o neri, con cravatte che gridano vendetta al cospetto del Buddha Gigante.
Mitici i pendagli da cellulare che spesso pesano piú del cellulare. Mitiche la gambe stortissime e i denti miscelati a caso. Mitici i nerd galvanizzati nelle mangherie pornazze ad Akiba. Mitico il silenzio che regna su tutto nonostante l’oggettivo casino. Mitici i tempietti che sorgono come funghi fra un grattacielo e l’altro. Mitiche le donne in kimono tradizionale e cellulare ipertechno alla mano. Mitiche la sale Pachinko dal casino surreale. Mitico il té verde al sapore di prato e/o di tonno in scatola.
E spezziamo una lancia, i Jap sono fuori dal mondo anche per quanto riguarda l’inestimabile gentilezza; all’arrivo, un tizio qualunque che passava di lí ci ha visti spersi con la mappa dell’hotel in mano e spontaneamente si é offerto di aiutarci, accompagnandoci personalmente fin sulla porta, senza per questo rubarci né i bagagli né i portafogli.

Il resoconto completo su: http://turistipercaso.it/tokyo/61119/dieci-giorni-fra-tokyo-e-dintorni.html
Foto su: http://good-times.webshots.com/album/556425231pUoYpb